mercoledì 2 dicembre 2009

“Copenhagen: ripartire da Bali” di Roberto Musacchio


[dal sito nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà]
Mano mano che si avvicina la data di inizio crescono le attese per il vertice di Copenaghen. Una constatazione tutt’altro che banale. Non sono molti infatti nella nostra storia gli eventi da cui ci si aspetta qualcosa di positivo, soprattutto al livello di scelte così globali come quelle in discussione per il clima. La stessa mobilitazione altermondialista di questo decennio si è alimentata di molti appuntamenti “contro“, assegnando la propria ricerca dell’altro mondo possibile a sedi proprie, i social forum, alternative a quelle ufficiali da cui non ci si aspettava altro che minacce.
Il protocollo di Kyoto è una eccezione. Nato, come convenzione, nella temperie del vertice ONU sulla Terra a Rio nel 1992, una sorta di ultimo sprazzo dei tentativi di avere una globalizzazione dolce, tradito dalle incertezze clintoniane, ha dovuto combattere per sopravvivere dopo che al clintonismo sconfitto si sostituì la gelata di Bush. La sua globalizzazione dura tutta a difesa e a promozione del modello di vita americano; Bush elesse quel protocollo a nemico da battere.
La storia della resistenza di Kyoto è una pagina importante della nostra esperienza di questi decenni difficili. Essa ha avuto molte tappe significative come quella di una disponibilità europea ad agire sul clima come un soggetto politico reale e come l’entrata in vigore legale effettiva del protocollo grazie alla firma della Russia. Ma è il punto di svolta che può indicare una sorta di scavallamento della fase più drammatica ed anzi l’avvio di un cammino futuro, quello del cosiddetto dopo Kyoto e cioè del nuovo trattato.
Come è noto la realizzazione della convenzione e del trattato sono affidati ad un lavoro permanente che produce ricorrenti conferenze tra le parti, come la prossima a Copenhagen. Ebbene fu alla penultima, a Bali, che si costruì l’architrave per il dopo Kyoto. Precedentemente, a Montreal, c’era stato un attacco frontale di Bush. Ma a Bali si arriva con la forza del quarto rapporto degli scienziati ONU, l’IPCC che vincerà il premio nobel, e il nuovo rapporto dell’economista Stern che quantifica i costi economici disastrosi della inazione.
La realtà intanto ha mostrato l’aggravarsi oltre le previsioni del cambio climatico e le difficoltà della globalizzazione dura di Bush. A Bali si propone l’architettura per il Kyoto2, un trattato assai più complesso del primo. Ho già usato la metafora che è come passare dalla aritmetica all’insiemistica. Entrano nuovi fattori che devono tener conto di tutto ciò che determina le modificazioni antropiche del clima e sono indispensabili per le politiche necessarie ad affrontarlo. Gli inquinamenti storici; le deforestazioni; il procapite; i trasferimenti tecnologici; i finanziamenti; i meccanismi di sviluppo pulito; l’adattamento ai cambi comunque in atto e molto altro. Rimangono per altro le caratteristiche che hanno fatto di Kyoto un atto capace di successo, e cioè obiettivi e date certe e natura vincolante giuridicamente e dunque sanzionabile. E gli obiettivi di Bali assumono quelli degli scenari proposti dall’IPCC e cioè due step per le riduzioni che questa volta devono essere assai più massicce dell’inadeguato meno 6% sul 1990 per i Paesi industrializzati del Kyoto1. Si tratta infatti di un meno 25-40% al 2020 e di un meno 60-80% al 2°5°. Il documento di Bali per la prima volta è sottoscritto anche da Americani e Cinesi.
Dopo Bali il fatto che ulteriormente rafforza la prospettiva è il varo del pacchetto clima da parte dell’Unione Europea che, pur con compromessi, assume quello scenario con leggi approvate. Tutto ciò rende ragionevole puntare sulla possibilità che si arrivi sul serio al Kyoto2. A Copenhagen? Non è detto, ma non è detto nemmeno il contrario.
Cosa stia succedendo è noto. C’è una scesa in campo del neo G2, Usa e Cina. E cioè il Paese che ha ora il record delle emissioni totali, la Cina; e quello che mantiene saldamente quello delle procapite, e cioè gli USA. Il loro atteggiamento è ambivalente tra un desiderio di “prendere la guida”, ma probabilmente per calare una riforma di Kyoto sui propri interessi, e un rendersi conto che le politiche del clima sono obbligatoriamente multipolari. E infatti alle prime incaute dichiarazioni che depotenziavano Copenhagen, subito duramente criticate da Lula e Sarkozy, ha fatto seguito un investimento su Copenhagen in termini di presenza fisica dei presidenti, un vero evento storico, e di disponibilità ai tagli.
Le critiche di Sarkozy e Lula avevano la forza di poggiare su fatti concreti e cioè il pacchetto europeo approvato e l’impegno sulla non deforestazione dei latinoamericani, che vale il 15 per cento nel conto delle emissioni. Il pacchetto europeo ha poi la forza di aver affrontato concretamente e con leggi molti degli aspetti necessari al Kyoto2 e di averlo fatto secondo lo schema ONU.
Questo per me è il punto focale: tenere gli elementi cardini tipici del protocollo e cioè la valenza giuridica, la certezza di date e obiettivi, la verificabilità, la sanzionabilità, il carattere multipolare, l’inserimento di elementi cooperativi. Altro sarebbe passare ad uno schema “volontario”. Naturalmente anche lo schema Kyoto ha problemi grandi come la creazione di un gigantesco mercato della C02 probabilmente a rischio di speculazioni finanziarie; o le priorità di intervento (l’Africa ha fatto giustamente sentire la propria voce di continente che meno emette e più subisce).
Ma se si esce dallo schema vincolante non si sta più dentro Kyoto. Ci possono essere mediazioni e flessibilizzazioni, ma dentro schema ed obiettivi già sottoscritti a Bali. Per questo la mediazione danese va criticata perché quel 50% al 2050 indietreggia sugli scenari IPCC. Tenere lo schema Bali è decisivo; anche se magari servirà un nuovo appuntamento per ratificare giuridicamente accordi presi a Copenhagen. Dove però è bene decidere il più possibile, il meglio possibile.
Copenhagen celebra un incontro tra questa specifica storia di resistenza e i movimenti altermondialisti. Mette alla prova il nuovo corso di Obama. E’ una occasione che non possiamo perdere perché questo pianeta surriscaldato può continuare a vivere tranquillamente anche quando la vita su di esso per noi specie umana sia resa per nostra colpa impossibile.

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