Sul caso di Eluana Englaro si consuma uno scontro istituzionale gravissimo tra esecutivo e Quirinale. Il Consiglio dei Ministri prima approva in extremis un decreto per fermare i medici nonostante il no del Colle, poi in serata si riunisce per presentare una legge da portare alle Camere. Il premier minaccia: "Se necessario cambio la Costituzione". Il Capo dello Stato incassa il sostegno da Fini e da tutto il centro sinistra dentro e fuori dal Parlamento. "Deluso", al contrario, il Vaticano. In piazza per la vigilanza democratica.
Lo Stato, non quello di diritto ma quello proprietario val bene qualche compromesso sottobanco con la Lega e con il Vaticano e poco importa se per restare in sella si deve calpestare la Costituzione. È quello che nel suo intimo, pensa Silvio Berlusconi che, per mettere in salvo il suo esecutivo dalle fibrillazioni interne ha accontentato la Lega nord nella sua smania giustizialista contro gli immigrati facendo approvare dal Senato in quattro e quattr'otto un disegno di legge xenofobo e repressivo. E, in cambio dell'accondiscendenza dell'oltre Tevere ha barattato lo Stato di diritto con l'accanimento terapeutico mascherato da "difesa della vita" di un corpo costretto a vegetare.
Perché di questo scambio si tratta e perché per mantenere questo simulacro di democrazia eterodiretta tra Casa Arcore e Via della Conciliazione il premier in carica non ha esitato ad aprire un conflitto senza eguali dalla nascita della Repubblica Italiana tra potere Esecutivo, Capo dello Stato, Magistratura e Parlamento.
L'antefatto lo conosciamo tutti: il corpo di Eluana giace su un lettino a Udine, nella clinica la Quiete e oggi i medici si apprestano a iniziare quella lenta procedura che porterà a staccare la spina fra circa una settimana. Ci sono voluti anni di battaglie condotte dalla famiglia Englaro per veder rispettate le volontà di quella giovane donna; tre gradi di giudizio da parte della magistratura; mentre imperversava la polemica nel paese e il parlamento si arenava non riuscendo a partorire un testo di legge condiviso.
Poi, la boutade del decreto legge governativo. Una firma sotto tre righe di testo che vietano di sospendere l'alimentazione e l'idratazione. E la minaccia che se il decreto non passa allora si "forzerà" il Parlamento e financo la Costituzione.
Eppure, il presidente Napolitano aveva speso tute le sue parole per chiedere una legge condivisa su un tema, quello del testamento biologico, che attiene alle sensibilità di ogni singolo individuo, perché tratta di vita e di morte, di libertà e di dignità della persona, di fede e di scienza. Si era spinto fino all'estremo gesto di scrivere nero su bianco una lunga lettera che spiegava al Consiglio dei ministri il perché e il percome delle fondamenta della Carta costituzionale italiana, dello spirito democratico e del principio ineludibile della divisione dei poteri. Tutto per evitare un confronto - scontro la governo e Quirinale, soprattutto quando il paese si trova ad affrontare una crisi economica e sociale senza precedenti. Tutto vano.
Napolitano si è visto strattonare, sbattere la porta in faccia, richiamare all'obbedienza dal "manager" Silvio che non sopporta di non essere accontentato. Ma il Quirinale non risponde all'uomo politico né tantomeno al manager. Risponde alla Costituzione e alla democrazia. E quel decreto, il presidente della Repubblica non lo può firmare perché mancano i requisiti della necessità e urgenza e perché la giustizia si è già espressa al riguardo con il suo massimo organo. (Continua qui...)
Lo Stato, non quello di diritto ma quello proprietario val bene qualche compromesso sottobanco con la Lega e con il Vaticano e poco importa se per restare in sella si deve calpestare la Costituzione. È quello che nel suo intimo, pensa Silvio Berlusconi che, per mettere in salvo il suo esecutivo dalle fibrillazioni interne ha accontentato la Lega nord nella sua smania giustizialista contro gli immigrati facendo approvare dal Senato in quattro e quattr'otto un disegno di legge xenofobo e repressivo. E, in cambio dell'accondiscendenza dell'oltre Tevere ha barattato lo Stato di diritto con l'accanimento terapeutico mascherato da "difesa della vita" di un corpo costretto a vegetare.
Perché di questo scambio si tratta e perché per mantenere questo simulacro di democrazia eterodiretta tra Casa Arcore e Via della Conciliazione il premier in carica non ha esitato ad aprire un conflitto senza eguali dalla nascita della Repubblica Italiana tra potere Esecutivo, Capo dello Stato, Magistratura e Parlamento.
L'antefatto lo conosciamo tutti: il corpo di Eluana giace su un lettino a Udine, nella clinica la Quiete e oggi i medici si apprestano a iniziare quella lenta procedura che porterà a staccare la spina fra circa una settimana. Ci sono voluti anni di battaglie condotte dalla famiglia Englaro per veder rispettate le volontà di quella giovane donna; tre gradi di giudizio da parte della magistratura; mentre imperversava la polemica nel paese e il parlamento si arenava non riuscendo a partorire un testo di legge condiviso.
Poi, la boutade del decreto legge governativo. Una firma sotto tre righe di testo che vietano di sospendere l'alimentazione e l'idratazione. E la minaccia che se il decreto non passa allora si "forzerà" il Parlamento e financo la Costituzione.
Eppure, il presidente Napolitano aveva speso tute le sue parole per chiedere una legge condivisa su un tema, quello del testamento biologico, che attiene alle sensibilità di ogni singolo individuo, perché tratta di vita e di morte, di libertà e di dignità della persona, di fede e di scienza. Si era spinto fino all'estremo gesto di scrivere nero su bianco una lunga lettera che spiegava al Consiglio dei ministri il perché e il percome delle fondamenta della Carta costituzionale italiana, dello spirito democratico e del principio ineludibile della divisione dei poteri. Tutto per evitare un confronto - scontro la governo e Quirinale, soprattutto quando il paese si trova ad affrontare una crisi economica e sociale senza precedenti. Tutto vano.
Napolitano si è visto strattonare, sbattere la porta in faccia, richiamare all'obbedienza dal "manager" Silvio che non sopporta di non essere accontentato. Ma il Quirinale non risponde all'uomo politico né tantomeno al manager. Risponde alla Costituzione e alla democrazia. E quel decreto, il presidente della Repubblica non lo può firmare perché mancano i requisiti della necessità e urgenza e perché la giustizia si è già espressa al riguardo con il suo massimo organo. (Continua qui...)
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