Il terremoto ha sempre tremato dentro le nostre vite, insinuandosi minaccioso nelle nostre case, mutando con violenza il nostro paesaggio, depositando dolori e segreti, lutti e racconti che ritornano ogni volta che la terra trema. Ritornano come dagherrotipi della paura, come un vecchio struggente album di foto in bianco e nero, come icone della lotta fangosa tra la vita e la morte, come fuochi fatui che illuminano appena la nostra incommensurabile fragilità.
Il terremoto è una vera epifania: rivela la nostra intimità, squarciando la vita domestica ed esibendola sporca e quasi imbalsamata per piccoli frammenti: un pezzo di cucina, un pezzo di camera da letto, brandelli di elettrodomestici assieme a bamboline e a quaderni. Si tratta di una intimità spezzata e miscelata a caso con quella degli altri, una sorta di lessico famigliare impazzito, con tutte le parole accumulate come macerie accanto ai cadaveri.
Ma il sisma rivela anche la storia di un territorio, la cura e l’incuria che hanno segnato i processi di crescita urbana, la quantità di strappi e cesure che il cemento selvaggio e abusivo ha inferto al corpo delle città. La terra trema e deflagra la trama minuta e delicata di un centro storico, tra i calcinacci e le voragini affoga la vita dei vivi e la vita delle cose, si piegano chiostri e palazzi che parevano vestiti d’eternità, lì una mamma con i suoi bimbi, lì due studenti fuorisede, lì un vecchio: tutti morti, tutto schiacciato, triturato, bombardato dalla potenza oscura che si cumula nelle viscere della Terra, e quel palazzo non era di recente costruzione? E questa non è area ad alta sismicità in cui il cemento dovrebbe edificare strutture capaci di reggere il più violento degli urti? E queste non sono le solite domande che, ad ogni scossa, puntualmente, tornano a rotolare tra le macerie?
Ieri fu l’Irpinia, io avevo poco più che vent’anni e quella sera di novembre mentre le famiglie si rovesciavano per strada io feci il percorso a ritroso fin su, al terzo piano, per prendere i miei vecchi: papà mi disse di no, mentre andava via la luce e arrivava il panico, mi disse che lui voleva morire in casa sua. I vecchi sono così, hanno bisogno di quelle loro geometrie domestiche, dei loro odori, delle loro pietre. Poi c’è la morte indicibile, quella il cui lutto lacera il ventre: la morte chiusa nelle bare bianche, il volo degli angeli come erano i bambini di San Giuliano. Non posso ricordare immagini più pietose di quelle di quei bimbi chiusi in quelle piccole casse, nella palestra nella cittadina molisana, con attorno i genitori pazzi di dolore, un semicerchio di famiglie spolpate e sputate in quella liturgia funebre che aveva qualcosa di classico e di planetario, davvero un “pianto antico” per quel taglio irreparabile al filo della discendenza. E oggi il nostro dolcissimo Abruzzo, una specie di Settentrione del Meridione, con quella città incantata che è rovinosamente inciampata su se stessa: L’Aquila, con il suo prezioso nido di architetture secolari, questa città-uccello colpita al cuore.
Una tragedia meridionale. Una tragedia anche pugliese. Una tragedia che rivela l’Italia, nel male dei suoi dissesti e delle sue sciatterie ambientali, ma anche nel bene della straordinaria solidarietà che la attraversa tutta, per una volta saltando anche gli steccati della cosiddetta Padania.
Non voglio dire parole stonate, mentre ancora si contano i morti: ma se questa sciagura non ci rivela ciò che forse dovremmo sapere, e cioè che l’Italia è delicata e va protetta e curata, allora non vale piangere. Mettere in sicurezza il territorio, difendere la bio-diversità, curare le ferite urbane, salvare la bellezza e lasciarsi salvare dalla bellezza: questa è la “grande opera” di cui c’è un disperato bisogno.
Nichi Vendola
Nessun commento:
Posta un commento