Lunedì sera fiorentino al Teatro Puccini, con il candidato premier dell'Arcobaleno e il professore britannico davanti a mille persone [di Anubi D'Avossa Lussurgiu - 9 Aprile]
«Un nuovo inizio». «Un soggetto unico della sinistra». «Un arcipelago e non una piramide come il Pd». «Un edificio fondato non sul leader ma sulla partecipazione, non romanocentrico ma centrato sull'autonomia dei territori, non burocratico ma con una direzione democratica, collegiale e di nuova generazione». «Il soggetto politico di ogni lotta di liberazione». Fa un po' impressione sentire Fausto Bertinotti scandire queste parole come ha fatto lunedì nella lunga serata pubblica con Paul Ginsborg a Firenze, al Teatro Puccini. Vestigia del ventennio fascista e al tempo stesso delle antiche lotte operaie, costruita dal regime proprio come dopo-lavoro accanto alla Manifattura Tabacchi fiorentina, con il bassorilievo delle "Madri operaie" che campeggia sulla facciata. Dà una certa sensazione ascoltare qui l'apologia della Liberazione storica, che Bertinotti grida alla fine raccogliendo il guanto di sfida di Fini che vuole «liberarsi della sinistra» - e non è certo il solo a pensarlo «obiettivo principale» da portare nelle urne. E ne dà una ancor più indefinibile sentire indicare più volte la liberazione da rideclinare oggi e per il futuro, come orizzonte dell'impegno della sinistra e come «questione dell'umanità», nella temperie della campagna elettorale che lo schermo dei media rappresenta come la più piatta e di più basso profilo della storia repubblicana.
In questo modo vanno le cose, comunque. Vanno che a scandire l'ultima settimana di sforzo pre-elettorale del candidato premier de "la Sinistra l'Arcobaleno" c'è una serata così, straniante e insieme autentica: mille persone stipate in un vecchio teatro che di posti a sedere ne fa 635, dalla platea alla galleria, mille facce di fabbrica e d'ufficio, d'atelier d'arte e d'aula universitaria, di liceo e di pensione d'anzianità, di vecchia base Pci e di Forum sociale, di sindacato e di rete precaria, di "girotondi" e di "collettivi", che stanno lì ad ascoltare dall'inizio alla fine quei tre sul palco. Bertinotti e quel professore britannico fiorentinizzato e dalla voce tanto gentile quanto la logica del suo discorso è rigorosa; e quella ragazza che li "modera", Elisabetta Piccolotti, umbra che col fiorentino Federico Tomasello coordina le giovani comuniste e i giovani comunisti di Rifondazione. Un palco che non sollecita tanto l'attenzione al voto, a cinque giorni dal voto; ma dal quale si dipana un dialogo su ciò che è a venire. Nella sinistra. Con un tema dominante: la costruzione del soggetto. Con una determinazione evidente: il soggetto unico. Con un'ansia che si sente: farlo nuovo non per vuoto "nuovismo" e per "sindrome di rimozione" della storia, ma anzi per saldare finalmente i conti in sospeso con essa, con l'esperienza dei suoi punti più alti, appunto «di liberazione», come con quella dei suoi limiti quanto a democrazia e «valorizzazione della persona». E per riannodare i fili delle esperienze più mature degli ultimi anni, nel cuore della contemporaneità e alla sua altezza: in testa i movimenti dell'altermondialismo (Bertinotti) o nuovomondismo (Ginsborg).
Certo: i limiti ci sono, si vedono, chiunque se ne può accorgere. E' un dito, critico e autocritico, che Ginsborg punta subito, appena presa la parola nel primo giro, prima ancora di rispondere alla domanda di Betta su come affrontare «l'americanizzazione» spinta dal veltronismo, anzi su «se è vero che siamo anche noi negli Usa e cosa significa per la sinistra». Il professore, col suo sorriso spiazzante e il suo accento che fa simpatia, fa una considerazione in premessa guardando alla platea resa invisibile dai riflettori puntati: «Mi sento strano, voi mi vedete mentre io non vedo voi». Metafora dello stato attuale dell'azione dirigente nella sinistra: meglio, metafora di quei limiti duraturi d'una intera storia con la quale fare i conti.
Subito si apre una dialettica produttiva. Per un verso l'invito ginsborghiano ad andare davvero «oltre il Novecento», ad un «pensare nuovo» inteso come «pensare alto», intanto assumendo che da noi come negli Usa, in America Latina come in India qualcosa ha detto definitivamente che «siamo nel mondo» ed è stato il movimento contro il neoliberismo da Seattl in poi; e il riferimento, fra «molte colpe», a quella «virtù del Pci» che era «il legame tra quotidiano e progetto di futuro», che oggi «vive» nelle «pratiche minute» degli «stili di vita alternativi», a partire dalla critica dei consumi. Per altro verso l'adesione bertinottiana all'«invito», con «un'aggiunta»: che è, «per guadagnare l'innovazione», anzi «un nuovo inizio», il «balzo di tigre nel passato» à la Benjamin, specificamente nelle «lezioni alternative» dischiuse dalla storia del movimento operaio. Dal fatto che sin dall'inizio «non era destino» l'egemonia del «modello tedesco» fatto di «forza di combattimento» strutturata verticalmente e articolata in partito, sindacato e cooperazione; mentre c'era un'altra esperienza, quella francese, «segnata dalle tendenze anarchiche» e più territoriale, orizzontale, autogestionaria. Fino alle «correnti eretiche» che misero a critica «la presunzione dell'avanguardia», come il consiliarismo d'un Karl Korsch. Dallo stesso «stato nascente» dei Soviet e della Rivoluzione d'Ottobre, prima della piega in «processo autoritario». Fino all'esperienza-chiave per la medesima biografia politica di Bertinotti: il «sindacato dei consigli», la spinta conflittuale d'una nuova composizione di classe e l'impetuosa sperimentazione di forme democratiche consiliari nel cuore della produzione, proiettate a sovvertire la divisione del lavoro nonché la pretesa di "neutralità" di scienza e tecnica.
Insomma: «Senza il deposito di quelle rivolte e rivoluzioni, non siamo nessuno». Ma al tempo stesso, certo: «Non si è figli di questa storia semplicemente perché si alza una falce e martello». Serve, invece, «riaprire un cammino di liberazione». Fare di quelle esperienze un'ispirazione mentre si procede «sperimentando» in avanti, nel presente storico. Anche, per esempio e appunto ereticamente, «fare una campagna elettorale costruendo i fondamenti del nuovo soggetto della sinistra». Cui occorrono «emozioni» e «fraternità». Perché, in fondo, il refrain di chi questa campagna vuole «dominare» è univoco: additare come orizzonte unico una solitaria «passività». E' lo sfondo di senso d'una battuta "pesante" come quella di Berlusconi alla precaria, cui consigliava di sposare suo figlio. E qui sta «la forza» del berlusconismo: precisamente nell'essere metafora attiva dell'egemonia capitalista.
Per Bertinotti è un passaggio, anche, per parlare di quelli che ha incontrato prima di entrare in sala: le lavoratrici e i lavoratori dell'Electrolux in lotta contro la minaccia di delocalizzazione. Per raccontare l'impotenza dell'ascolto che solo può prestare una sinistra priva ad oggi della «forza» necessaria a fornire «potere» alle lotte. Soccorre un aneddoto, «chissà se vero», proprio su Electrolux al tempo della vecchia Pignone e del sindaco La Pira: che avrebbe convinto Enrico Mattei ad evitarne con la sua Eni la chiusura solo con un'argomento, disperato, da democristiano a democristiano. Questo: «Enrico, stanotte ho sognato la Madonna e m'ha detto "Mattei salverà la Pignone"». Senza perciò doverci credere, è la morale, per battere il comando assoluto del profitto «bisogna sognare la Madonna», cioè trascenderne le «compatibilità». Al che occorre, in ultima analisi, la politica. Una sinistra, insomma.
D'altra parte, ci sono le ragioni incalzanti recate da Ginsborg. Che forma e sostanza di questo compito di ricostruzione politica chiede di prederle di petto, «senza lasciar fuori nessuno e nessuna storia». Di avere «meno retorica e più principi». Di non invitare, come si è fatto negli "stati generali" mesi fa, a «travolgere» gli apparati partitici - detto dal loro vertice - per poi «presentare ad esempio queste liste alle elezioni»... E ci sono quei tre punti del "decalogo" dell'associazione toscana "per la sinistra unita e plurale", che il professore sottopone, anche personalmente, a Bertinotti: «per nuove forme di democrazia che combinino democrazia rappresentativa e partecipativa»; «contro i rapporti verticali e gerarchici» e «per i rapporti orizzontali di solidarietà e l'assoluta trasparenza nei processi decisionali»; e «contro un'idea della politica che mette l'enfasi sulla leadership carismatica e su personaggi autocratici».
La sorpresa è che Bertinotti, stavolta, non solo aderisce ma rilancia. Intanto parlando chiaramente di sé ed esplicitando che la decisione d'essere «dal 15 un semplice compagno di strada» significa una volontà di «spezzare la delega» e aprire la strada ad un «processo costituente» che componga «democraticamente» un «gruppo dirigente collegiale e di nuova generazione» - anzi, «con un salto generazionale radicale». E poi dicendo tutte quelle cose riferite al principio, che fanno quella strana impressione. Tale che danno il senso d'un appuntamento ormai fissato, per il 15. Non per una sovradeterminazione: per un invito. Ma evidentemente non è un bigliettino concepito per certe occasioni, come un palco condiviso col professor Ginsborg: visto che Bertinotti le stesse parole, una per una, le ha ripetute ieri. A la Stampa , a Matrix e al Testaccio di Roma. Vedremo allora, all'appuntamento, quante e quanti si presenteranno.
«Un nuovo inizio». «Un soggetto unico della sinistra». «Un arcipelago e non una piramide come il Pd». «Un edificio fondato non sul leader ma sulla partecipazione, non romanocentrico ma centrato sull'autonomia dei territori, non burocratico ma con una direzione democratica, collegiale e di nuova generazione». «Il soggetto politico di ogni lotta di liberazione». Fa un po' impressione sentire Fausto Bertinotti scandire queste parole come ha fatto lunedì nella lunga serata pubblica con Paul Ginsborg a Firenze, al Teatro Puccini. Vestigia del ventennio fascista e al tempo stesso delle antiche lotte operaie, costruita dal regime proprio come dopo-lavoro accanto alla Manifattura Tabacchi fiorentina, con il bassorilievo delle "Madri operaie" che campeggia sulla facciata. Dà una certa sensazione ascoltare qui l'apologia della Liberazione storica, che Bertinotti grida alla fine raccogliendo il guanto di sfida di Fini che vuole «liberarsi della sinistra» - e non è certo il solo a pensarlo «obiettivo principale» da portare nelle urne. E ne dà una ancor più indefinibile sentire indicare più volte la liberazione da rideclinare oggi e per il futuro, come orizzonte dell'impegno della sinistra e come «questione dell'umanità», nella temperie della campagna elettorale che lo schermo dei media rappresenta come la più piatta e di più basso profilo della storia repubblicana.
In questo modo vanno le cose, comunque. Vanno che a scandire l'ultima settimana di sforzo pre-elettorale del candidato premier de "la Sinistra l'Arcobaleno" c'è una serata così, straniante e insieme autentica: mille persone stipate in un vecchio teatro che di posti a sedere ne fa 635, dalla platea alla galleria, mille facce di fabbrica e d'ufficio, d'atelier d'arte e d'aula universitaria, di liceo e di pensione d'anzianità, di vecchia base Pci e di Forum sociale, di sindacato e di rete precaria, di "girotondi" e di "collettivi", che stanno lì ad ascoltare dall'inizio alla fine quei tre sul palco. Bertinotti e quel professore britannico fiorentinizzato e dalla voce tanto gentile quanto la logica del suo discorso è rigorosa; e quella ragazza che li "modera", Elisabetta Piccolotti, umbra che col fiorentino Federico Tomasello coordina le giovani comuniste e i giovani comunisti di Rifondazione. Un palco che non sollecita tanto l'attenzione al voto, a cinque giorni dal voto; ma dal quale si dipana un dialogo su ciò che è a venire. Nella sinistra. Con un tema dominante: la costruzione del soggetto. Con una determinazione evidente: il soggetto unico. Con un'ansia che si sente: farlo nuovo non per vuoto "nuovismo" e per "sindrome di rimozione" della storia, ma anzi per saldare finalmente i conti in sospeso con essa, con l'esperienza dei suoi punti più alti, appunto «di liberazione», come con quella dei suoi limiti quanto a democrazia e «valorizzazione della persona». E per riannodare i fili delle esperienze più mature degli ultimi anni, nel cuore della contemporaneità e alla sua altezza: in testa i movimenti dell'altermondialismo (Bertinotti) o nuovomondismo (Ginsborg).
Certo: i limiti ci sono, si vedono, chiunque se ne può accorgere. E' un dito, critico e autocritico, che Ginsborg punta subito, appena presa la parola nel primo giro, prima ancora di rispondere alla domanda di Betta su come affrontare «l'americanizzazione» spinta dal veltronismo, anzi su «se è vero che siamo anche noi negli Usa e cosa significa per la sinistra». Il professore, col suo sorriso spiazzante e il suo accento che fa simpatia, fa una considerazione in premessa guardando alla platea resa invisibile dai riflettori puntati: «Mi sento strano, voi mi vedete mentre io non vedo voi». Metafora dello stato attuale dell'azione dirigente nella sinistra: meglio, metafora di quei limiti duraturi d'una intera storia con la quale fare i conti.
Subito si apre una dialettica produttiva. Per un verso l'invito ginsborghiano ad andare davvero «oltre il Novecento», ad un «pensare nuovo» inteso come «pensare alto», intanto assumendo che da noi come negli Usa, in America Latina come in India qualcosa ha detto definitivamente che «siamo nel mondo» ed è stato il movimento contro il neoliberismo da Seattl in poi; e il riferimento, fra «molte colpe», a quella «virtù del Pci» che era «il legame tra quotidiano e progetto di futuro», che oggi «vive» nelle «pratiche minute» degli «stili di vita alternativi», a partire dalla critica dei consumi. Per altro verso l'adesione bertinottiana all'«invito», con «un'aggiunta»: che è, «per guadagnare l'innovazione», anzi «un nuovo inizio», il «balzo di tigre nel passato» à la Benjamin, specificamente nelle «lezioni alternative» dischiuse dalla storia del movimento operaio. Dal fatto che sin dall'inizio «non era destino» l'egemonia del «modello tedesco» fatto di «forza di combattimento» strutturata verticalmente e articolata in partito, sindacato e cooperazione; mentre c'era un'altra esperienza, quella francese, «segnata dalle tendenze anarchiche» e più territoriale, orizzontale, autogestionaria. Fino alle «correnti eretiche» che misero a critica «la presunzione dell'avanguardia», come il consiliarismo d'un Karl Korsch. Dallo stesso «stato nascente» dei Soviet e della Rivoluzione d'Ottobre, prima della piega in «processo autoritario». Fino all'esperienza-chiave per la medesima biografia politica di Bertinotti: il «sindacato dei consigli», la spinta conflittuale d'una nuova composizione di classe e l'impetuosa sperimentazione di forme democratiche consiliari nel cuore della produzione, proiettate a sovvertire la divisione del lavoro nonché la pretesa di "neutralità" di scienza e tecnica.
Insomma: «Senza il deposito di quelle rivolte e rivoluzioni, non siamo nessuno». Ma al tempo stesso, certo: «Non si è figli di questa storia semplicemente perché si alza una falce e martello». Serve, invece, «riaprire un cammino di liberazione». Fare di quelle esperienze un'ispirazione mentre si procede «sperimentando» in avanti, nel presente storico. Anche, per esempio e appunto ereticamente, «fare una campagna elettorale costruendo i fondamenti del nuovo soggetto della sinistra». Cui occorrono «emozioni» e «fraternità». Perché, in fondo, il refrain di chi questa campagna vuole «dominare» è univoco: additare come orizzonte unico una solitaria «passività». E' lo sfondo di senso d'una battuta "pesante" come quella di Berlusconi alla precaria, cui consigliava di sposare suo figlio. E qui sta «la forza» del berlusconismo: precisamente nell'essere metafora attiva dell'egemonia capitalista.
Per Bertinotti è un passaggio, anche, per parlare di quelli che ha incontrato prima di entrare in sala: le lavoratrici e i lavoratori dell'Electrolux in lotta contro la minaccia di delocalizzazione. Per raccontare l'impotenza dell'ascolto che solo può prestare una sinistra priva ad oggi della «forza» necessaria a fornire «potere» alle lotte. Soccorre un aneddoto, «chissà se vero», proprio su Electrolux al tempo della vecchia Pignone e del sindaco La Pira: che avrebbe convinto Enrico Mattei ad evitarne con la sua Eni la chiusura solo con un'argomento, disperato, da democristiano a democristiano. Questo: «Enrico, stanotte ho sognato la Madonna e m'ha detto "Mattei salverà la Pignone"». Senza perciò doverci credere, è la morale, per battere il comando assoluto del profitto «bisogna sognare la Madonna», cioè trascenderne le «compatibilità». Al che occorre, in ultima analisi, la politica. Una sinistra, insomma.
D'altra parte, ci sono le ragioni incalzanti recate da Ginsborg. Che forma e sostanza di questo compito di ricostruzione politica chiede di prederle di petto, «senza lasciar fuori nessuno e nessuna storia». Di avere «meno retorica e più principi». Di non invitare, come si è fatto negli "stati generali" mesi fa, a «travolgere» gli apparati partitici - detto dal loro vertice - per poi «presentare ad esempio queste liste alle elezioni»... E ci sono quei tre punti del "decalogo" dell'associazione toscana "per la sinistra unita e plurale", che il professore sottopone, anche personalmente, a Bertinotti: «per nuove forme di democrazia che combinino democrazia rappresentativa e partecipativa»; «contro i rapporti verticali e gerarchici» e «per i rapporti orizzontali di solidarietà e l'assoluta trasparenza nei processi decisionali»; e «contro un'idea della politica che mette l'enfasi sulla leadership carismatica e su personaggi autocratici».
La sorpresa è che Bertinotti, stavolta, non solo aderisce ma rilancia. Intanto parlando chiaramente di sé ed esplicitando che la decisione d'essere «dal 15 un semplice compagno di strada» significa una volontà di «spezzare la delega» e aprire la strada ad un «processo costituente» che componga «democraticamente» un «gruppo dirigente collegiale e di nuova generazione» - anzi, «con un salto generazionale radicale». E poi dicendo tutte quelle cose riferite al principio, che fanno quella strana impressione. Tale che danno il senso d'un appuntamento ormai fissato, per il 15. Non per una sovradeterminazione: per un invito. Ma evidentemente non è un bigliettino concepito per certe occasioni, come un palco condiviso col professor Ginsborg: visto che Bertinotti le stesse parole, una per una, le ha ripetute ieri. A la Stampa , a Matrix e al Testaccio di Roma. Vedremo allora, all'appuntamento, quante e quanti si presenteranno.
Nessun commento:
Posta un commento